lunedì 23 febbraio 2015

Una questione sommersa: la ricerca dell’equilibrio perduto

La maggior parte della costa marchigiana è in erosione. In Italia e in generale in tutto il mondo l’erosione delle coste è uno dei problemi ambientali ed economici più rilevanti e difficili da risolvere: paradigmi della sostenibilità

di Leonardo Badioli



La mappa della costa della regione Marche che si affaccia sul mare Adriatico
Immaginiamo un volo radente lungo la costa marchigiana per tutta la sua estensione, oppure prendiamo un aereo da diporto e voliamo per davvero lungo il mare: sarebbe questo il modo più diretto per controllare lo stato in cui si trovano i nostri litorali. Anche affacciati al finestrino di un treno che percorre la linea litoranea possiamo renderci conto di quanto siano numerosi i tratti in erosione lungo i 174 km. di costa marchigiana. Aspettando che la Regione Marche abbia portato a termine il rilievo analitico delle coste che ha commissionato l'anno scorso e che si trova momentaneamente allo stallo, possiamo comunque accontentarci di dare un'occhiata in successione alle ortofotocarte che ritraggono il confine tra la terra e il mare per leggervi che molta parte della costa è presidiata da opere di contenimento dell'azione del mare, ossia che molta parte della costa marchigiana si trova in stato di erosione. Secondo dati forniti verso la metà degli anni ‘80 da Renzo Dal Cin dell’Istituto di Geologia dell’Università di Ferrara, le coste in vario modo difese arrivavano nella nostra regione al 55%; nei quindici anni che sono seguiti fino ad oggi la percentuale è certamente aumentata: parliamo di coste difese dall’erosione marina con barriere di contenimento, perché i tratti del nostro litorale che progressivamente subiscono processi erosivi sono certamente di più. Negli stessi anni le regioni adriatiche nostre confinanti ci seguivano a ruota: 50% di coste difese in Emilia Romagna e 45% in Abruzzo. In base a informazioni del CNR si può ritenere oggi che in Italia il 50% delle spiagge sia in erosione ma, secondo l'opinione di Enzo Pranzini del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Firenze, probabilmente a questa cifra va aggiunto un altro 30% di coste che, considerate in stato di equilibrio, in realtà non lo sono. Se teniamo a mente adesso che l'Italia ha 8.220 chilometri di coste, possiamo avere un dato numerico orientativo: circa 6.500 chilometri di costa italiana si trovano in stato di erosione. Questi dati così imponenti non sarebbero tuttavia una singolarità italiana dal momento che, secondo l'opinione degli esperti, il 70% delle spiagge in tutto il mondo subisce processi erosivi. Per la vastità della sua portata e per la complessità della sua formazione, un simile problema si pone dappertutto come uno dei più rilevanti e difficili da risolvere.


Date le proporzioni dei fenomeni osservati, l’erosione delle coste va posta in relazione in primo luogo con l’aumento delle temperature e l'innalzamento del livello del mare dovuti al riscaldamento globale. 

Nel corso del Vertice di Rio del 1992, 183 paesi sottoscrissero un documento programmatico, l'Agenda 21, che, pur non contenendo obblighi giuridici, costituiva un impegno politico al più alto livello sulla cooperazione internazionale in materia di ambiente e sviluppo. L'Agenda 21 è il più grande master plan che sia mai stato redatto e sottoscritto nella storia della comunità internazionale. Divisa in quattro grandi sezioni che racchiudono un totale di quaranta capitoli, ciascuno dedicato a una questione o a un settore specifico, essa individua un centinaio di aree di programma considerate significative per l'attuazione di quelle politiche che dovrebbero concorrere a tradurre in pratica la logica dello “sviluppo sostenibile”. Il diciassettesimo capitolo è dedicato all'ambiente marino; tra le sette questioni prioritarie che vi vengono individuate, la prima in elenco riguarda precisamente la gestione integrata e lo sviluppo sostenibile delle aree costiere. 
Quanto la questione delle aree costiere ci debba interessare è per noi facilmente comprensibile se pensiamo che i 670 comuni costieri che ci sono in Italia sono l’8% del totale degli 8091 comuni italiani, ma che ci vivono 17 milioni di persone, ossia il 30% dell’intera popolazione: questo senza contare le affluenze estive. Agenda 21, appunto, indica la necessità di "nuovi approcci alla gestione e allo sviluppo delle aree costiere, ai livelli globale, nazionale, subregionale e regionale, approcci che devono essere integrati per quanto riguarda il contenuto e precauzionali e preventivi per quanto riguarda il metodo". 
L'erosione delle coste trova facilmente il suo posto in un simile paradigma. A livello planetario e di grandi aree regionali, la questione viene esaminata soprattutto in relazione alle possibili implicazioni che si connettono con i cambiamenti climatici dovuti all'effetto serra. Lo studio degli scenari climatici riguardanti la regione Mediterranea, consegnato nel 1989 all'UNEP (United Nations Environment Programme) sul "Cambiamento globale del clima", stima, per il periodo 1985-2030, in 22-24 centimetri l'innalzamento del livello del mare. Queste valutazioni, convalidate da studi quantitativi sulle maree non facili da interpretare, sono da porre in relazione con l'aumento della temperatura e il conseguente scioglimento dei ghiacci polari e alpini; gli esiti annunciati, però, secondo lo studio, tardano per vari motivi a manifestarsi; esse sono poi da combinare con fenomeni come quello della subsidenza, che possono localmente provocare innalzamenti o abbassamenti della costa piuttosto consistenti. L'impatto fisico dell'innalzamento del livello del mare sui litorali bassi può essere previsto e modellato sulla base previsionale di parametri relativi alla morfologia del suolo, alla dinamica delle acque e dei sedimenti, alla subsidenza del terreno e agli effetti prodotti dalle strutture artificiali; i venti e le correnti, la piovosità, la vita biologica costituiscono altri elementi quantificabili nel quadro più generale dei cambiamenti climatici. Compito ancora meno facile sembra essere quello di prevedere l'impatto che questi cambiamenti climatici sono destinati a produrre sulla vita economica e sociale degli abitanti della costa. Ad ogni buon conto lo studio dell’UNEP suggerisce che la gestione della zona costiera si debba basare su una sistematica analisi costi-benefici, il che significa su una stima del valore dell'uso dei suoli che si trovano in pericolo d'erosione, da calcolarsi non solo nei termini delle loro funzioni presenti nel contesto dei bisogni locali, ma soprattutto nella prospettiva dei decenni a venire. Tutte queste considerazioni evidentemente si misurano sulla proiezione di fenomeni ritenuti in atto già prima degli anni novanta e non su una valutazione circa la possibile efficacia degli impegni che nello stesso periodo sono stati assunti a livello mondiale perché l'effetto serra venga arginato o limitato: il fatto di metterci in relazione con gli effetti che vengono prospettati, e di organizzarci di conseguenza, non dovrebbe mai far dimenticare che il primo impegno in tutto il mondo va rivolto a impedire che essi divengano realtà.
Un simile argomento, in ogni modo, veniva fino a poco tempo fa toccato raramente in Italia quando si parlava di gestione delle coste, e mai messo in relazione coi provvedimenti necessari, malgrado fosse stato annunciato ormai da più di dieci anni. Non diversamente avviene nelle Marche, anche se alcuni aspetti specifici degli scenari che vengono delineati per l'area mediterranea fanno proprio riferimento all'Adriatico settentrionale o a situazioni e luoghi che presentano caratteri simili a quelli che esistono nella nostra costa marchigiana. Nel corso di un convegno su "Vulnerabilità e tutela delle coste protette" che si è tenuto nel marzo del 1999 a Portonovo, Massimo Sarti, ordinario di Geologia e Sedimentologia Marina all'Università di Ancona, vi ha fatto un riferimento molto generale. Parlando di evoluzione del clima, dopo avere ricordato come esso sia influenzato da fattori astronomici per cicli variamente lunghi, ha accennato alle previsioni che vengono fatte sull’aumento della temperatura dovuto all’effetto serra e le conseguenti proiezioni sul livello dei mari: “Si tratta di visioni estreme”, ha commentato con cautela, “basate però su dati reali”. Il che equivale forse a mettere a nudo il disorientamento di quella parte della comunità scientifica che non è direttamente impegnata nell'esercizio di fare previsioni: il dispiegarsi vertiginoso dell'effetto serra tende a sfondare i confini strettamente disciplinari dell'organizzazione delle scienze; l'invarianza primordiale che lo caratterizza a imporre un'unificazione accelerata degli studi per la quale restiamo impreparati; le stime sull'innalzamento del livello dei mari, tanto inverosimili quanto deduttivamente logiche, a figurare scenari inimmaginabili per l'esperienza comune; le alternative che vengono poste a chi vive sulla costa - come quelle indicate da Jodi Jacobson per il Worldwatch Institute nel 1990, ossia contrastare il mare con enormi dighe oppure ritirarsi - talmente drastiche e sommarie da schiacciare ogni forma di competenza o di attenzione tra quelle che oggi ci ripromettiamo di mettere in atto per recuperare alla costa gli equilibri perduti. Alla prova delle conseguenze locali delle variazioni globali, la maggior parte degli studiosi e degli amministratori ha preferito fino ad oggi non pensare.


La conformazione fisica dell’Italia ha favorito l’affermarsi di una cultura ingegneristica che ha portato alla “logica delle scogliere”.

Detto questo, capita sempre più spesso negli anni più recenti che agli studiosi vengano offerte occasioni per mettere in vetrina e a confronto un bel panorama di conoscenze: geologiche, oceanografiche, sedimentologiche, biologiche, meteorologiche; esse concorrono al rinnovarsi di un rapporto tra i centri della ricerca e i centri della decisione politica che non necessariamente si riduce a un'affannosa rincorsa ai finanziamenti da parte dei primi e di giustificazioni da parte dei secondi. Con tutte le generalità che inevitabilmente si imponevano al discorso perché il confronto tra linguaggi diversi diventasse possibile, il Convegno di Portonovo mise in campo una varietà di approcci al problema dell'erosione tale da meritargli un'attenzione particolare, non fosse altro che al confronto della pochezza e frammentazione che erano prevalse negli anni precedenti. Va quindi letto con favore questo invito ad incrociarsi rivolto ad alcune varietà di conoscenze che prima procedevano per linee parallele, e che in genere erano restate sistematicamente escluse dalla consultazione e dalla concertazione progettuale. La scelta di un confronto che ammetta una pluralità di voci è più congeniale alla ricerca di soluzioni complesse, in un campo in cui finora aveva dominato una forte monocultura ingegneristica. La parola "ingegneristica", espressamente usata nei documenti regionali, non intende denigrare un'intera categoria professionale, quanto piuttosto additare una monocultura, un tipo di monocultura il cui obiettivo è il controllo unilaterale dell’ambiente.
Il convegno di Portonovo prendeva le mosse, al di là del movente specifico rivolto alla tutela dei parchi costieri, da determinazioni politiche. La mozione programmatica della prima legislatura regionale D'Ambrosio poneva infatti come prioritario l'impegno contro l'erosione delle coste marchigiane, specificando che esso doveva avvenire "mediante il ripristino degli equilibri ambientali" e attraverso "il superamento delle logiche delle scogliere frangiflutti". Questo indirizzo, proprio in quanto tardivo, ha il sapore di una svolta lungamente attesa per chi aveva a cuore lo stato delle nostre coste e, aggiungeremmo, anche quello delle nostre finanze. Le Marche, come l'Italia intera, hanno alle spalle una considerevole esperienza nel campo della difesa delle coste mediante scogliere foranee, radenti, emerse, soffolte, pennelli e ogni altra sorta di barriera fisica da opporre all'azione del mare; né si può pensare che, malgrado i programmi e i convegni, tutte queste "logiche" appartengano definitivamente al passato. Possiamo chiederci forse se esista una particolare propensione italiana alle scogliere. "In Italia non ci sono grandi estuari sabbiosi", spiega Pranzini; "nei paesi dove questi esistono si preferisce movimentare le sabbie per ripristinare i luoghi dai quali il mare le ha portate via. In Italia ci sono invece molte cave di pietra. Mancando i grandi estuari, i nostri porti sono aggettanti vero il mare; la loro costruzione ha specializzato tecniche e formato tecnici esperti nelle costruzioni portuali. La rifrazione delle onde sui moli produceva situazioni erosive a ridosso dei porti; agli ingegneri quindi si affidava l'incarico di provvedere e loro progettavano scogliere. Queste circostanze hanno portato all'affermazione di un principio reattivo: il mare arriva; l'unico modo che abbiamo per salvaguardare la costa è quello di opporci all'energia del moto ondoso. 
E' pur vero che negli anni più recenti non c'era convegno di studio su questo tema che ignorasse, tra le altre cause dell'erosione, quella del degrado specificamente indotto dalle opere di difesa della costa: ricordiamo, a titolo d’esempio, che in un convegno dal titolo "Ambiente, Legislazione, Autonomie” (ALA) organizzato a Senigallia per iniziativa di una locale "Associazione per la Difesa della Natura e del Paesaggio" nel dicembre del 1984, Renzo Dal Cin trattò dettagliatamente questo tema, e assai precocemente rispetto a quanto ancora prevaleva nella cultura dei poteri pubblici dalle nostre parti. Gli amministratori di quell'epoca erano ancora ben lontani dal porsi il problema di quanto le logiche delle scogliere frangiflutto fosse alla lunga insostenibile. Non potrebbero tuttavia giustificarsi sostenendo che un diverso approccio al problema dell'erosione costiera non fosse conosciuto allo studio dei fenomeni, alla comunicazione scientifica e alle istanze di alcune associazioni ecologiste. Il fatto è che questo diverso approccio, che si preoccupava non solo di difendere le coste o recuperare terreno, ma anche di comprenderne la dinamica e di trovare risposte adattative piuttosto che oppositive, non poteva evitare di inserire l'urbanizzazione intensiva della costa come elemento agente nella valutazione della dinamica mutevole tra la terra e il mare. Mentre l'ingegneria, simbolo trionfante del “sapere come”, si fingeva onnipotente e si permetteva di ignorare tutti i limiti che non fossero suoi propri, il concorso delle scienze fisiche e biologiche ha invece affermato la necessità di stabilire confronti con i problemi ambientali, in modo che anche l’ingegneria vi partecipi e si renda consapevole dei contesti ambientali nei quali i suoi tecnici vanno a collocare la loro opera. Una simile cooperazione rende possibile valutare quale sia il limite che non dobbiamo varcare se vogliamo evitare il permanere di un rapporto fortemente conflittuale con la natura delle cose, e anche mettere in discussione quanto abbiamo fatto dove quel limite sia stato varcato. Per quanto riguarda il rapporto tra il mare e l'urbanizzazione, sembra evidente che siamo arrivati a questo punto.


Gli insediamenti turistici costieri sembrano essere trascorsi oltre il limite della sostenibilità del rapporto tra mare e terra. La loro vicinanza alla linea di costa trasforma spesso i movimenti del mare in “eccezionali” mareggiate.

Nel corso del convegno ALA di cui dicevamo, i geografi Carlo Cencini e Luigi Varani dell'Università di Bologna tennero una relazione assai documentata sull'urbanizzazione dei litorali in erosione. La loro ricognizione prendeva necessariamente le mosse dalla storia del litorale adriatico: gli ultimi duemila anni mostrano con evidenza in tutto il Mediterraneo, e in Adriatico in particolare, una tendenza al ritirarsi dell'acqua per far posto all'avanzare della costa. La rendono evidente i casi di Adria, città eponima del nostro mare ed ora ben lontana dalla costa, e i porti interrati di Classe e di Aquileia. Le carte del sette-ottocento, numerose e ragionevolmente attendibili, presentano una linea di costa assai arcuata e cuspidi avanzate in corrispondenza delle foci dei fiumi. Erano il disboscamento e la coltivazione dei monti, massimi in quell'epoca, a rifornire i fiumi di materiali copiosi da trasportare al mare. Questi processi, sicuramente innescati dall'azione umana, hanno conosciuto un rallentamento e un'inversione di tendenza nella prima metà del secolo concluso, in concomitanza temporale con effetti indotti dal ciclo delle piccole glaciazioni; sta di fatto che da allora le coste adriatiche cominciarono a diventare rettilinee. Si tratta di trasformazioni osservate fin dal 1930, quando già il CNR veniva conducendo ricerche sulle variazioni di spiaggia; a quegli studi seguirono poi programmi speciali e progetti finalizzati alla conservazione del suolo. La “corrosione” – così si diceva allora - della costa aveva dall’inizio del secolo cominciato a interessare i governanti, ma doveva apparire loro ancora come uno dei tanti aspetti della lotta dell’uomo contro gli elementi naturali, temibili dove si manifestano, ma non abnormi. A partire dagli anni cinquanta, però, lo sviluppo dell'industria turistica cominciò a ridurre progressivamente gli spazi di rispetto e la tolleranza per l’azione delle onde e a proiettare concettualmente sul dinamismo costiero quelle qualifiche di abnorme e innaturale che meglio si sarebbero attagliate all'avanzare delle installazioni fisse fin quasi sopra l'acqua. Ecco allora come, sempre più frequentemente, una mareggiata non particolarmente violenta viene definita "eccezionale" - anche se la meteorologia non registra aumenti tendenziali dell'attività del moto ondoso o variazioni delle correnti particolarmente rilevanti - solo perché porta via una parte della spiaggia, un baretto o un pezzo della strada. Né la cementificazione della costa può essere considerata soltanto come uno sconfinamento disorganizzato, o "selvaggio" verso il mare, come spesso viene detto senza pensare: l'intera organizzazione balneare si è andata definendo urbanisticamente come una serie di allineamenti paralleli a una linea di costa immaginata immobile, e ha inciso profondamente gli spazi costieri con capanni, baretti, muretti, lampioni, marciapiedi, alberature, impiantistica e alberghi. La spinta all'occupazione stabile dei terreni a immediato ridosso del mare fu impressa dai comuni balneari proprio negli anni sessanta e settanta, quando già le conoscenze, perdute come sedimentazione storica, si andavano diffondendo per opera degli studiosi anche fuori dall’ambito scientifico. Si ebbe insomma nella cultura generale un rovesciamento del paradigma di riferimento: non erano più le attività umane a porsi in competizione con l’attività del mare (una forma di ybris, secondo Bateson), ma era questa a interferire con le previsioni dei pianificatori. Cencini e Varani erano convinti già nell’ ‘84 che questo sviluppo non fosse avvenuto nell'ignoranza, ma nello sprezzo delle conoscenze riguardanti il dinamismo costiero. Le conoscenze c'erano tutte, ma le prospettive di profitto immediato, favorito dal basso valore venale iniziale di litorali incolti e dunosi, convinsero le amministrazioni locali prima a non ostacolare, poi a pianificare l'avanzamento; se ci fossero stati problemi, l'ingegneria marina avrebbe, con i soldi di tutti, difeso quelle installazioni dalle pretese "straordinarie" del mare. Esempi evidenti di cattiva coscienza emergono dalla lettura di alcune convenzioni tra comuni e costruttori privati. La convenzione per realizzare il residence “Le Piramidi” a Cesano, ad esempio, giustificava l’edificazione a pochi metri dal mare includendo una clausola per la quale ci sarebbe stato un concorso dei privati (minimo, si capisce!) nella realizzazione di scogliere qualora si fossero rese necessarie. Si resero infatti subito “necessarie”, infatti, e fu la Regione a provvedere sia alla protezione del residence, sia a quella delle zone adiacenti, andate a loro volta in erosione per fenomeno riflesso.
Da quel periodo l'urbanizzazione turistica non soltanto rappresenta la causa prevalente dello sconfinamento delle attività umane oltre il limite di una sostenibilità fisica pur intuitivamente intesa; più ancora, essa fissa una trincea avanzata come limite di non ritorno. Ci pare anzi di avere osservato, in alcune amministrazioni pubbliche chiamate a decidere, un ulteriore scatto di presunzione nei confronti del mare e di irresponsabilità per le conseguenze alle quale lo loro scelte espongono le comunità rivierasche limitrofe e il complessivo equilibrio dinamico litoraneo: se prima venivano protetti quei tratti di costa in corrispondenza dei quali l’erosione metteva a repentaglio gli insediamenti turistici e le infrastrutture, da qualche tempo vengono realizzate scogliere e opere di difesa non per proteggere cose già esistenti, ma per creare spazio all’urbanizzazione. Una simile intenzione era leggibile negli atti degli amministratori di Montemarciano ed evidentissima in quelli degli amministratori di Mondolfo. Qui, finalmente, quei signori hanno visto coronato il sogno pluriennale di proteggere per tutta la lunghezza il tratto di costa comunale da loro amministrato, da Marotta alla foce del Cesano: per una parte si trattava di difendere costruzioni e infrastrutture irresponsabilmente costruite a due metri dall’acqua, come il doppio residence “le Vele”, e un lungomare molto rovinato dalle continue rivalse del mare; ma dall’altro, tra le Vele e il Cesano, non c’erano insediamenti da proteggere, né la strada, ben distante dalla linea di battigia, era insidiata dalle onde: c’era, tra la strada e il mare, un’area floristica protetta con un canneto e un laghetto costiero, uno degli ultimi luoghi naturali della nostra costa, per la verità non curato e quasi deliberatamente abbandonato ai rifiuti e alla sporcizia. Si è trattato quindi di un eccesso di (legittima?) difesa che sta privando la costa marchigiana di uno degli ultimi luoghi naturali e lo stesso comune di un luogo che avrebbe potuto essere un vero giardino in riva al mare. Infatti, il comune di Mondolfo chiese ed ottenne dall’amministrazione regionale del presidente D’Ambrosio che l’area floristica fosse declassata e sguarnita di tutele; poi, proseguendo il lavoro di posa in opera da parte del Provveditorato alle Opere Marittime, ha cominciato a prevedere costruzioni, a realizzare piazzole e svincoli stradali, sottopassi ferroviari e illuminazione pubblica in previsione di urbanizzare tutta l’area di fronte alla spiaggia che si formerà. “I benefici devono ancora arrivare”, ci ha dichiarato uno speranzoso amministratore di quel comune.
Non era nemmeno conclusa l’opera, che l’abitato del Cesano, in comune di Senigallia, ha cominciato a risentire dell’effetto riflesso di quei lavori; e davvero non ce n’era bisogno, perché anche l’amministrazione senigalliese aveva fatto la sua parte nel permettere costruzioni a ridosso della spiaggia. La visione degli effetti che si vanno a produrre con l’intervenento tra le Vele e il Cesano sembra non interessi molto il Provveditorato, né la Regione dà segno di sentirsene coinvolta; i comuni interessati sembrano piuttosto condurre tra di loro una guerra territoriale fatta di egoismi locali e irresponsabilità.
Ricostruire questi processi non corrisponde a un accanimento storicistico, ma assume importanza perché ci permette di considerare come transitori alcuni dati che nel presente siamo abitualmente portati a considerate stabili e quasi di “diritto”. Soltanto una valutazione molto libera e consapevole, che ponga i benefici che ci sono consueti e che riteniamo dovuti a confronto con i costi attuali e tendenziali della difesa costiera potrebbe mettere in discussione lo stato attuale delle cose; ma noi sappiamo che ancora il complesso decisionale fatto di cultura amministrativa e strumenti operativi non è adeguato a garantire l’integrazione che viene richiesta; sappiamo che, come direbbe Luhmann, indicando i pericoli si rischia di avere inutilmente ragione e che solo le catastrofi, ecologiche o finanziarie, siano capaci di imporre alla normale amministrazione decisioni di forte contenuto, mentre la rincorsa all'emergenza ordinariamente non fa che aggravare lo stato delle cose.


Marina di Montemarciano è un esempio in cui il fenomeno erosivo è stato osservato attentamente nella genesi e nell’evoluzione da amministratori, esperti e associazioni locali: in questo luogo si può tentare di indicare almeno i capitoli di un sommario bilancio della costa.

Un bilancio della costa non è mai stato tentato nelle Marche. Un bilancio della costa, rammentava Pranzini nel corso della sua relazione al convegno di Portonovo, è fatto di entrate e uscite: le entrate corrispondono agli apporti di materiale di spiaggia, sabbie e ghiaie fluviali soprattutto; le uscite agli effetti di asporto e ridistruibuzione dovuti all'azione delle onde. La spiaggia in erosione di Marina di Montemarciano è un luogo molto adatto per elencare almeno i capitoli di un bilancio addizionale-sottrattivo della costa: con un saldo in perdita, ovviamente. "Non perché questo posto sia un palinsesto di tutte le brutture",  ammonisce Leonardo Polonara, geologo della Regione, sfoderando il suo entusiasmo vigoroso per ogni cosa che succede in mare; "da altre parti negli anni si è fatto molto peggio". Diciamo allora che qui si può vedere concentrato il risultato del procedere delle trasformazioni che emergono dalla storia e aumentano progressivamente di intensità nella modernità fino a sfociare nello stato in cui si trova la costa al giorno d'oggi. A queste motivazioni aggiungiamo pure che l'interesse per Marina di Montemarciano è dovuto al fatto che qui si sono trovate a confrontarsi, a un certo punto, concezioni molto diverse, anzi opposte, di considerare il rapporto tra la terra e il mare.
Preoccupiamoci intanto di sapere perché il mare ha smangiucchiato il litorale di Marina: per farlo dovremo almanaccare tra quelle che manualisticamente vengono indicate come concause responsabili dell'arretramento della linea di costa: guardare a terra innanzitutto, e vedere come negli anni sia venuto riducendosi il contributo di sabbie e ghiaie che formavano il trasporto solido del fiume Esino. Sono noti i fattori sui quali il calcolo dovrebbe essere incentrato: l'attività dei cavatori, che sottrae per altre destinazioni quelle sabbie di fiume che altrimenti sarebbero destinate al ripascimento naturale della costa; i lavori che vengono condotti in alveo, come difese spondali in cemento, briglie, traverse, sbarramenti e tutte quelle opere che vengono gettate per ottenere il rinforzo delle sponde e la laminazione delle acque con l'obiettivo di ridurre il pericolo di piene: esse formano vasche entro le quali si depositano i materiali che altrimenti sarebbero portati a mare; la subsidenza di origine antropica, ossia l'abbassamento del suolo dovuto all'intenso emungimento delle acque di falda; l'intenso prelievo di acque fin dalle sorgenti per la fornitura di acqua potabile e dall'alveo fluviale per l'irrigazione: una ridotta portata significa per il fiume anche una ridotta capacità di trasportare materiali solidi verso il mare; ad essa contribuisce significativamente anche la minore piovosità degli ultimi due decenni; infine la diversa natura dei materiali trasportati durante le piene impetuose che avvengono di tanto in tanto, quando scendono acque limacciose cariche, anziché di sabbie e ghiaie, di limi e argille provenienti dal dilavamento dei terreni arati troppo in profondità e non più trattenuti da alberi e filari: questi materiali si depositano alla foce come sedimenti torbidi e fangosi; se imbrigliati alterano la vita biologica del litorale; se liberi vengono rapidamente dispersi. 
Su queste cose dovrebbe essere mirata la conoscenza quantitativa che permetterebbe di redigere un bilancio della costa, almeno per quanto riguarda il contributo del territorio al deposito dei sedimenti: bilancio in realtà assai difficile da compilare data la complessità dei fenomeni e la scarsa sorveglianza che li accompagna. Su queste voci si innesta poi un altro capitolo che riguarda le attività che si producono lungo la costa: prima di tutto la soppressione ormai quasi totale delle dune litoranee, che erano formazioni risultanti dalla storia naturale in quell’ecosistema di confine, e fattore di stabilità dell’assetto costiero rispetto all’erosione eolica e marina: ricordo a proposito una canzone di Jacques Brel, nella quale, con intuito idraulico non meno che poetico, lo chansonnier belga parlava di vagues de dunes pour arrêter les vagues, onde di dune per fermare le onde. 
C’è però un aspetto nello stesso tempo tipico e specifico che rende Marina interessante: quello connesso col degrado causato da opere di difesa. Grazie al loro procedere e al loro riflettere effetti sul tratto adiacente della costa, Marina è diventata prima importatrice e poi esportatrice d’erosione. Le opere di difesa della costa sono infatti anche circostanza agente del trasferirsi progressivo dell'azione dirompente del mare fino al luogo in cui si manifesta oggi. Assistiamo al sovrapporsi storico delle difese mediante scogliere: quella napoleonica a protezione del porto di Ancona; quelle che proteggono il riempimento più recente di parte dell'area portuale; vediamo la successione delle scogliere parallele tra Palombina e Falconara. Vediamo il successivo avanzare a braccetto dell’urbanizzazione e della protezione della costa urbanizzata. 
Nel 1990 il geologo Massimo Mosca testimoniava l'avanzata dell'erosione certificando in calce a un capitolo del libro "Esino Mare" che "la situazione si è aggravata dopo la costruzione della scogliera radente a protezione del complesso industriale dell'API"; l'associazione spontanea di Marina "'L Crocc" annotava tutto e aggiungeva all'elenco le costruzioni intorno all'Hotel Luca che, pur nate nell'abusivismo, sono state poi protette da scogliere. Questi passi sono stati accuratamente osservati dall'Associazione e trasmessi ai poteri pubblici nei primi anni novanta. Da qualche anno infatti la spiaggia di Marina si andava trasformando in una palestra di esercitazioni spesso contraddittorie, che in comune avevano però il carattere diversivo delle opere e gli alti costi dei lavori.


Una valutazione ecologica e economica degli interventi fatti a Marina di Montemarciano può essere utile ad additare una linea di condotta tortuosa tra emergenza e contraddizione che non dovremo più seguire.

Ma un bilancio della costa, ci tiene Pranzini a sottolineare, non è soltanto un bilancio dei sedimenti: è anche un bilancio economico. 
La costa della regione Marche tra Falconara Marittima e Marina di Montemarciano
Puntiamo gli occhi un’altra volta sul nostro esempio di Marina; un compito successivo dovrebbe portarci a considerare quanto è avvenuto negli altri siti in erosione nelle Marche, in modo da estendere la stima il più possibile fino a toccare il confine dell'unità amministrativa di riferimento, la regione, e poi, applicandola a quanto si è fatto nelle altre regioni, fino a comprendere l'intero litorale adriatico. Qui possiamo far confluire le valutazioni che andiamo raccogliendo localmente su dati riguardanti l’insieme delle coste italiane: in quarant’anni si sono spesi circa 10.000 miliardi stimati ai prezzi del 1988 in opere di difesa per ottenerne risultati spesso peggiorativi. Chi avrà voglia di seguirci nel ragionamento interagisca con noi facendoci conoscere il risultato delle sue valutazioni. 
Quando l'erosione cominciò a portare via la spiaggia e a danneggiare il lungomare di Marina, nel tratto tra il fosso Rubbiano e il fosso Avena, l'amministrazione delle ferrovie fece gettare una scogliera radente. Valutare i costi ambientali di una scogliera radente, il tipo di opere che determina la più forte rifrazione delle onde di traversia inducendo quindi processi erosivi sul tratto di costa adiacente, non era evidentemente fra i compiti dell'amministrazione ferroviaria, il cui unico obiettivo è l'esercizio di far correre i treni; né a quei tempi, negli anni settanta, ci si preoccupava troppo di coordinare l'azione delle singole amministrazioni per prevederne gli effetti sulla complessità. Sui costi in solido non siamo informati, ma possiamo orientarci su un calcolo di € per metro lineare di scogliera, da rivalutare all'oggi.
Il mare ha tempi di reazione meccanica abbastanza rapidi; essendo già il tratto sud presidiato da scogliere, non mancò di riproporsi con vigore poco dopo verso nord rompendo nei pressi della foce del Rubbiano. Fu a questo punto che i montemarcianesi persero la spiaggia. Si intervenne allora di nuovo con altri cento metri di scogliere radenti che consentirono sul momento di tamponare quella reazione. Anche la pubblica amministrazione si rese conto, a quel punto, che non poteva continuare a buttare soldi (in forma di scogli) in mare per ottenere il solo effetto di spostare il punto in sofferenza cento metri più in là. Avvalendosi della progettazione dell'Aquater, dunque, la Regione pensò di sistemare definitivamente tutta la zona con una realizzazione da finanziarsi con i fondi F.I.O. del 1982. I tubi "Longare", collocati dopo quella data sul fondale prospiciente il nuovo tratto in erosione, materializzavano uno sforzo sperimentale piuttosto importante, che fu anche ampiamente pubblicizzato. I Longare erano salsicciotti pieni di sabbia collocati sul fondo per trattenere i materiali di ripascimento artificiale della spiaggia. Purtroppo non ressero alla "eccezionale" mareggiata dell' 1 e 2 febbraio 1986 e furono spazzati via.
L'anno dopo, 1987, furono collocate le scogliere soffolte. Furono presentate come la soluzione magistrale per bloccare definitivamente l'erosione: appena affioranti dal pelo dell'acqua, garantivano un impatto "visivo" leggero e circolazione d'acqua per un miliardo e 343 milioni. Effettivamente le soffolte permisero una buona difesa della costa prospiciente e riuscirono anche a recuperare un tratto di spiaggia. Il guaio è che la forza del mare non fu spenta, ma soltanto dirottata 530 metri più su, dove la costa non era protetta. 
In quel punto una nuova mareggiata "eccezionale" si portò via mezza strada e giunse a minacciare la linea ferroviaria. La situazione d'emergenza determinò allora un ritorno ai provvedimenti d'emergenza: l'ammnistrazione delle ferrovie, che rimaneva sempre poco interessata alle questioni territoriali, tornò a collocare scogliere radenti. Anche qui dovremmo scrivere una cifra .
Un lodevole tentativo di coordinare gli interventi fu avviato però in quello stesso anno avendo per protagonisti la Regione e i tre comuni direttamente interessati: Falconara, Montemaricano e Senigallia. Insieme disposero che fossero condotti studi meteomarini "preliminari a ogni tipo di progettazione" di opere di difesa della costa dall'erosione, in particolare del tratto di costa compresa nell'unità fisiografica entro la quale si collocavano i loro continui confini comunali. Furono acquistate apparecchiature per la misurazione del moto ondoso e i risultati riempirono una cassa di carta. Passando poi alla fase realizzativa, il fragile coordinamento si infranse, perché la sola Montemarciano, incalzata direttamente dagli eventi erosivi, intendeva proseguire l'opera. Lo fece agganciando all'incarico di studio quello della progettazione per opere di difesa e mettendo a disposizione un piccolo acconto. Per il resto dell'importo, si contava evidentemente sulla forza della convinzione sulla Regione dovuta all'emergenza. Non era noto a quel tempo cosa avessero in mente di fare i progettisti; ma è certo che l'opera che ne seguì, la realizzazione di pennelli perpendicolari alla linea di costa, aveva poco a che vedere con gli studi "preliminari a ogni tipo di progettazione" se non lo stratagemma ammninistrativo che conferiva l'incarico agli estensori del progetto. L'intero programma di intervento prevedeva una spesa di 15 miliardi ed era dimensionato su tutta l'unità fisiografica identificata tra le foci del Cesano e dell'Esino. Non sfuggì agli osservatori una certa forzatura della perimetrazione dell'unità fisiografica indicata, che coincideva evidentemente coi confini amministrativi entro i quali operava l'incarico progettuale piuttosto che con una realtà attestata su dati di natura geofisica. Ma la disillusione per le tante opere che erano state intraprese inutilmente cresceva insieme con la consapevolezza che fosse necessario adottare un diverso atteggiamento nei confronti delle richieste del mare. In questo clima di confronto teorico e amministrativo venne fuori il progetto Poseidon.


E’ tecnicamente possibile, amministrativamente realizzabile ed economicamente conveniente mettere in atto una difesa flessibile della costa dall’erosione marina. Il caso Poseidon. 

Nei primi mesi del 1994 la stampa locale pubblicò un appello piuttosto insolito: ci sono in Regione fondi destinati all'emergenza alghe che non sono stati spesi: rischiamo di perderli perché non abbiamo progetti. Accettiamo progetti da chiunque voglia presentarli purché riguardino il mare, abbiano un carattere sperimentale e insieme anche esemplare, ossia realizzabile in più situazioni omologhe. Se risulteranno validi li realizzeremo. Lo scrivente era il Vicepresidente della Regione e Assessore all'Ambiente Gianluigi Mazzufferi. Non mancarono nei giorni seguenti le proposte. Una di queste era un "Progetto di difesa flessibile della costa dall'erosione marina" che per darsi un tono portava il nome di "Poseidon". I proponenti, gli architetti Dani Luzi e Fausto Cavalletti e il geologo Massimo Mosca, introducevano una metodica abbastanza inedita nel modo di affrontare la questione e mai fino ad allora presa in considerazione dalle autorità chiamate a intervenire. Il principio che il progetto intendeva mettere in atto era la flessibilità: evitiamo di ostacolare il mare con barriere rigide, come si è fatto fino ad oggi; vediamo invece, dove sia possibile, di assecondarlo, seguirne le mosse, correggerne magari l'azione, recuperare terreno con interventi leggeri e non irreversibili. In concreto il progetto proponeva di tenere sotto osservazione l'azione erosiva così come si veniva manifestando; valutarla nell'arco di un tempo determinato con un attento monitoraggio; modellare coerentemente la cavità prodotta dal mare sulle sue richieste e progressivamente intervenire con ripascimento artificiale. 
Un simile modo di operare prospettava molti vantaggi: avrebbe evitato innanzitutto di sprecare soldi nella posa di diaframmi rigidi il cui effetto fosse solo quello di spostare di qualche centinaio di metri, e rafforzato, l'urto delle mareggiate, come era accaduto fino a quel momento; avrebbe al contrario permesso di assorbire la propagazione dell'effetto erosivo lasciando al moto ondoso uno spazio controllato, riservando alla contesa del mare e della terra un ambito meno rigidamente delimitato e tendenzialmente in equilibrio. 
Il progetto Poseidon sceglieva Marina di Montemarciano come luogo esemplare di applicazione. Qui, come c'era da aspettarsi, recenti mareggiate avevano portato via nuovi tratti di spiaggia e mezza carreggiata della strada lungomare, sottoflutto rispetto alle opere di difesa già realizzate. La procedura graduale proposta non prometteva recuperi immediati e trionfali, ma non avrebbe nemmeno corso quel pericolo di dannosa inefficacia che si era osservata negli interventi a barriere rigide che l'avevano preceduta; essa avrebbe dato i suoi frutti migliori qualora fosse stata collegata con una parallela revisione dell'assetto urbanistico dell'area immediatamente retrostante il luogo in erosione. Infatti la rinuncia anche temporanea a una parte della spiaggia e della carreggiata sarebbe stata un fatto grave nel bilancio delle infrastrutture litoranee così come sono collocate oggi, su linee tutte parallele a quella di costa; sarebbe stata invece molto più leggera se si fosse immaginata e poi realizzata un'organizzazione del territorio costiero disposta in un altro modo. In questo senso, anzi, l'evento erosivo poteva costituire per le popolazioni locali e per gli amministratori del Comune l'occasione giusta per ripensare l'intera organizzazione della spiaggia. Diversamente dalla gerneralità dei luoghi, a Marina non ci sono costruzioni a ridosso della spiaggia, né ai lati del lungomare, né tra la ferrovia e la Statale. C'era quindi modo di concepire uno spazio in cui gli accessi al mare non fossero paralleli, ma perpendicolari alla linea di costa. Questo diverso orientamento avrebbe allentato la pressione delle infrastrutture sulla costa e tollerato una certa variabilità della sua linea; la spiaggia sarebbe stata quindi restituita a naturalità togliendo via completamente la strada e ricostituendo la duna originaria, attraversata da percorsi leggeri e fornita di strutture stagionali di servizio in legno; quattro accessi ciclabili e pedonali l'avrebbero collegata ai parcheggi oltre la ferrovia. Ne sarebbe risultata un'area tutelata verso mare e ben servita verso terra, un’oasi nel nostro intasatissimo litorale, certamente gradita a una domanda turistica più aggiornata. 
Naturalmente l'aspetto dell'organizzazione urbana non apparteneva strettamente al progetto; però ne forniva insieme il contesto e il complemento. Dove i diversi ambiti amministrativi separano la parte da realizzare sul mare da quella che attiene invece alle competenze comunali, un accordo di programma tra gli enti interessati avrebbe permesso di connettere gli ambiti e avviare collaborazioni e sinergie valide insieme per l'assorbimento del processo erosivo e per la valorizzazione della costa in senso naturale entro un unico ambito d'intervento; il solo corpo rigido in questo ambito sarebbe stato la linea ferroviaria, nell'attesa controllata che maturasse l'ipotesi del suo arretramento. 
La Regione Marche esaminò accuratamente ogni progetto pervenuto; ritenne, tra altri, il progetto Poseidon rispondente ai requisiti richiesti e lo iscrisse nel Piano Triennale degli Investimenti per l'Ambiente: Poseidon infatti si presentava innovativo nella proposta di ripascimento, ancora poco considerata nella nostra regione, sperimentale per le metodiche introdotte e per le collaborazioni da avviare tra enti territoriali e autorità marittima; ripetibile in condizioni consimili, dove la flessione controllata alla richiesta del mare non costasse rinunce troppo forti dal punto di vista economico e distributivo.
Anche l'amministrazione regionale successiva, che sostituì Mazzufferi con Mentrasti alla guida dell'Assessorato all'Ambiente, ebbe una buona opinione di Poseidon e lo confermò nel Piano Triennale delle opere da realizzare. L'importo del progetto intero era un miliardo e nove, ma seicento milioni venivano staccati e destinati alla realizzazione delle opere urbane: parcheggi, attraversamenti, percorsi. Non era poco: almeno in questo l'incomunicabilità tra i vari ambiti amministrativi si dimostrava superabile.
Tuttavia c'erano ancora molti ostacoli perché il progetto fosse messo in atto. Uno era costituito dalle ipoteche progettuali preesistenti, pur non chiaramente delineate nei rapporti tra Regione e Comune di Montemarciano; i tecnici direttamente interessati, il prof. Vitale e i suoi collaboratori, che proponevano ora per la zona la realizzazione di pennelli, non mancarono di reclamare la loro precedenza. Ci furono baruffe considerevoli e accuse denigratorie nei confronti degli autori di Poseidon, i quali a loro volta reagirono con denunce per calunnia: e l'ebbero vinta, almeno dal punto di vista giudiziario. Il progetto però perse consensi, anche perché il Comune di Montemarciano non fu mai disposto a ragionarci sopra. Per Raffaeli, il baffuto sindaco di allora, la realizzazione dei pennelli dava maggiori garanzie rispetto a un obiettivo che riteneva irrinunciabile: ripristinare subito la strada nella sua integrità e recuperare prima possibile la porzione di spiaggia portata via dal mare. La diversità di vedute tra Regione e Comune fu sanata con il conferimento dell'incarico per i pennelli; né la Regione si pose il problema di verificare l'efficacia della metodica proposta da Poseidon in altri luoghi, prima di buttarlo via.
Il progetto Poseidon fu depennato dal finanziamento regionale e rapidamente dimenticato. Venne così a cadere uno dei primi tentativi di intervenire sulla costa in un modo alternativo rispetto a quello di collocare barriere frangiflutti; fu persa l'occasione di assorbire e spegnere il processo erosivo nel punto in cui era stato gradatamente trasferito, evitando le scontate prospettive di una sua ulteriore propagazione. Poseidon resterà fino ad oggi, per quanto ne sappia, l'unico progetto che si sia proposto di connettere componenti a mare e a terra in un intervento integrato, che non avesse l’obiettivo puro e semplice di recuperare dal mare il maltolto, ma di ricercare un equilibrio più durevole, anche a costo di accettare un piccolo arretramento della linea di costa.
Marina ha avuto i suoi pennelli, intervento certamente più consueto nell'Italia delle opere pubbliche (anche per i costi: 4 miliardi), e collaudato da esperienze che attestano una certa efficacia nel catturare i sedimenti e ricostruire la spiaggia: non però immune da inconvenienti, tra i quali quelli che costantemente accompagnano ogni tipo di difesa rigida contro l'azione del moto ondoso: cioè di consentire l'avanzamento della costa sopraflutto per spostare l'effetto dell'erosione sottoflutto. La banale domanda alla quale con quell'intervento non era possibile rispondere era: “Cosa mettiamo dopo l'ultimo pennello?” Non abbiamo ottenuto risposta dalle autorità competenti, né tecniche né politiche; l’abbiamo però avuta dal mare, non molto tempo dopo la realizzazione dei pennelli: ancora erosione. Alla prima mareggiata di una qualche consistenza, le onde hanno sgrottato dopo l’ultimo pennello, portando via la poca spiaggia che s’era depositata e scavando fino a lambire il ciglio della strada, con un’evidenza irrisoria che non ha bisogno di commento. Col trionfo dei pennelli sulla difesa flessibile, e del mare sui pennelli, dobbiamo adesso cambiare la domanda e formularne un’altra: Che facciamo adesso? Alla quale rispondiamo subito: torniamo a interrogare il mare e comportiamoci di conseguenza, come Poseidon aveva fatto. Più in generale ci sembra a questo punto importante che ciascuno comprenda quanto sia necessario interrompere un modo di procedere che negli anni ha permesso, con il sovrapporsi di operazioni del tipo di quelle che abbiamo raccontato e delle relative ingenti spese, che l'attività erosiva del mare venga semplicemente trasferita altrove, verso il confine del territorio senigalliese, se vi vogliamo leggere un'intenzione di questo genere. A ben prevedere, la lotta privata dei montemarcianesi contro il mare finirà per scaricare sul comune vicino quell'erosione che era stata loro trasmessa da altri comuni vicini ed evidenziava la permanenza di un modo non coordinato di operare, sostanzialmente idiocentrico e non responsabile del common che le popolazioni confinanti si trovavano a condividere.


Più che in molti altri settori, le leggi hanno lungamente ignorato il degrado del mare e le coste. Non siamo ancora arrivati a una legislazione nazionale che definisca i principi e l’operatività di una tutela integrata delle coste.

A Marina di Montemarciano non prevalse soltanto una logica ingegneristica, con le sue predilezioni "ortopediche" nei confronti dell'ambiente, ma anche una parallela logica amministrativa che ne condivideva l'atteggiamento rispetto agli obiettivi che era giusto porsi. E' forse per questa affinità, se non per una pura e semplice faccenda di affari e di commesse, che una concezione "riduzionista" del rapporto tra amministrazione pubblica e ambiente si è trovata per tanti anni così bene in compagnia della monocultura dello scoglio o del cemento. 
Ma usciamo dagli episodi e torniamo alla vicenda generale: per dire subito, raccordando i fatti passati con le necessità presenti, che non dobbiamo cadere nell'errore di mettere facilmente sotto accusa una tradizione che aveva un senso quando ancora non si configuravano problemi ambientali come quelli che si sono manifestati in questi ultimi vent'anni. "Il peccato originale", scrive Gregory Bateson, "può essere in effetti interpretato come una propensione a compiere certi tipi di errore epistemologico, ma non sarà facile individuare l'istante esatto dell'errore". 
La prima legge italiana in materia di difesa delle spiagge è la 542 del 1907. Attribuendo allo Stato il compito della "difesa degli abitati", essa individuava come opere di difesa "i pennelli di inbarimento, le dighe di protezione e ogni altra opera che abbia lo scopo di arrestare il processo di corrosione" e poneva a carico dei comuni un quarto dei costi dell'opera da realizzare e la totalità delle spese di manutenzione. E' abbastanza probabile che i comuni non abbiano in realtà mai concorso a quelle spese fino a quando, nel 1980, il legislatore le pose a totale carico dello Stato. Sviluppo economico e salvaguardia della demanialità si aggiunsero alla difesa degli abitati come obiettivo di una legge soltanto nel 1977 - nei tanti anni precedenti avevamo avuto poco o niente che riguardasse al'erosione marina - quando il DPR 616 estese i compiti dello Stato alla difesa delle coste e si riservò la facoltà di autorizzare i governanti regionali a supportare in via complementare le azioni da porre in atto a questo scopo. 
Per avere vere e proprie "Disposizioni per la difesa del mare" bisognò però attendere il 31 dicembre 1982 quando, con la legge numero 979, furono approvate innovazioni notevoli nel panorama della legislazione ambientale di allora, sia perché vi si disponeva la pianificazione contestuale di più aspetti riguardanti il mare, quali inquinamento e zone di protezione, sia anche per il fatto che i diversi elementi combinati rappresentavano l'anticipazione di un vero e completo Piano Generale che ormai da qualche tempo era ritenuto "improcrastinabile" e che la legge poneva tra le sue migliori intenzioni. Non mancò tuttavia chi già da allora trovava queste disposizioni tardive, carenti, velleitarie per certi versi e soprattutto mal coordinate: si vede oggi quanto queste critiche cogliessero nel segno. È da ricordare per esempio la relazione che tenne nel corso del citato convegno ALA 1994 Ambrogio Robecchi Mainardi, del Dipartimento di Ingegneria dell'Università di Pavia: "Il legislatore non si è mai interessato veramente del mare dal punto di vista ambientale", concludeva al termine di un esame senza pregiudizi del testo legislativo. L’uditorio era ancora molto nuovo e fiducioso, in quegli anni là.
"E perché non se ne è mai interessato”, chiese un pescatore dalle poltrone del pubblico, “con tutto il mare che abbiamo in Italia?". 
"Forse perché per il mare più che per le altre risorse naturali è valsa la considerazione illuministico-ottocentesca che si trattasse di una risorsa naturale tanto grande da sembrare inesauribile", rispose il professore. "Ha ragione", confermò il pescatore con un pelo di ironia. "Si vede che quando le autorità concedevano tutte quelle licenze, dirette o in sanatoria, ai vongolari che arano la costa e distruggono i fondali, per loro valeva ancora quel ragionamento dell'ottocento che ha accennato lei. Noi pescatori costieri però c'eravamo accorti da un pezzo che il mare non è tanto grande come sembra".
Nemmeno da parte della Comunità Europea, bisogna dire, veniva ancora un’indicazione chiara che desse un inquadramento alle politiche nazionali in materia di difesa delle coste. Principi che oggi sembrano almeno teoricamente acquisiti in campo internazionale, come quello dell’integrazione degli interventi, stentavano a trovare applicazione, soprattutto quando c’era di mezzo il mare. Il principio dell’integrazione era pur affermato negli accordi di Maastricht (art. 130R); ma solo negli ultimi anni l’Unione Europea è riuscita a produrre riflessioni e iniziative importanti per una gestione integrata delle coste. Un primo documento, “Per una migliore gestione delle risorse del litorale”, introduttivo di un “Programma europeo per l’assetto integrato delle zone costiere”, si spendeva innanzitutto in una definizione di zona costiera: tanto più opportuna in quanto in Italia non esiste ancora una limitazione giuridica di ciò che le attiene: per la UE si tratta di “una striscia di terra e di mare di larghezza variabile in funzione della configurazione dell’ambiente e delle necessità di assetto, che raramente corrisponde ad entità amministrative esistenti; quindi “i sistemi naturali costieri e le zone dove le attività umane sono legate allo sfruttamento delle risorse del litorale, possono andare al di là delle acque territoriali ed estendersi per chilometri all’interno”; non solo: quel primo documento ammetteva che le attività che vi si svolgono possono entrare “in conflitto tra loro e con gli interessi di tutela di ambienti naturali e paesaggistici”. Da queste affermazioni, importanti come premesse della necessaria integrazione tra mare e terra, e quanto mai opportune perché se ne traggano indirizzi per le politiche da mettere in atto, il documento prendeva atto che “l’Unione Europea, attraverso le politiche dei trasporti, della pesca, dell’ambiente, dell’agricoltura, dell’energia, dell’industria e del turismo influenza l’evoluzione delle zone costiere”, e indicava l’esigenza di mettere a punto politiche appropriate. I programmi operativi INTERREG si propongono proprio di operare nella direzione dell’integrazione degli interventi entro l’ambito delle zone costiere.
L’altro documento, “Verso una strategia europea per la gestione delle zone costiere” (GIZC) fa riferimento a un “Programma dimostrativo sulla gestione integrata delle zone costiere della UE 1997-1999” e si dedica alla sostenibilità delle politiche: vi si afferma che “una gestione sostenibile richiede necessariamente un’attenzione simultanea nei confronti di tutti i numerosi sistemi che agiscono in modo significativo sulle dinamiche costiere” e che “dal momento che le componenti marina e terrestre sono strettamente correlate nelle zone costiere [...] qualsiasi intervento che desideri avere successo dovrebbe includere entrambe” (traggo queste sottolineature dal capitolo “Coste e mare a rischio” del libro di Renzo Moschini “Parchi oltre la Cronaca”, ed. Comunicazione, 1999, interessante, oltre che per il tema indicato nel titolo, anche per il punto sulle politiche di difesa della costa).
A dire la verità, la legislazione italiana disponeva già di una legge, la 183 del 1989 sui suoli, capace - attraverso integrazioni successive, secondo la lettura di alcuni - di collegare, concettualmente e organizzativamente, la tutela delle coste, di ciascuna costa connessa con un bacino imbrifero, al più generale compito di tutelare i suoli; ma, prima ancora che ci si accorgesse che la legge restava largamente inapplicata, la situazione erosiva aveva abbondantemente toccato i livelli che conosciamo direttamente e le opere di contenimento avevano dato il loro bravo contributo al degrado di gran parte del litorale.


Nei parchi costieri si possono realizzare i primi interventi integrati per una gestione sostenibile del litorale. 


Nessun accenno specifico faceva quella prima “legge sul mare”, la 979 del 1982, al problema dell'erosione della costa; tuttavia una cosa interessante emergeva in coda al dispositivo che istituiva le riserve marine. "Molto opportunamente", rilevava già allora Robecchi Mainardi, "si è previsto che qualora la riserva marina confini con il territorio di un parco nazionale, il decreto di costituzione ne regoli il coordinamento. Oppure, più esplicitamente: ove la fascia costiera costituisca parte integrante dell'ecosistema terrestre, la gestione viene affidata all'ente che gestisce il parco". Come prima apertura, quella connessione dei parchi di terra e di mare poteva andare bene.
Qualcosa era stato pur fatto negli anni successivi per estendere il discorso dell’integrazione mare-terra a tutte le coste. Dal 1986 le competenze sulla difesa della costa erano passate per gradi dal Ministero della Marina Mercantile a quello dell’Ambiente. Nel 1991 era stata approvata la legge quadro sulle aree protette. Ma delle 46 riserve marine previste in due riprese poche sono state istituite e non senza gravi contrasti; il Ministero dell’Ambiente, poi, nella sua relazione sullo “Stato dell’Ambiente” del 1989, dichiarava che a causa della formulazione normativa non era possibile associare alle riserve marine adeguate porzioni di terraferma. Le cause che ripetutamente vengono indicate a spiegare questo sostanziale fallimento nelle politiche di mare e di costa sono quelle ricorrenti: la lentezza e la genericità della normazione attestano il perdurare di una mentalità centralistica nella pubblica amministrazione italiana anche dopo la Bassanini, e una scarsa disponibilità a collaborare tra i diversi ambiti decisionali; al centralismo del vertice poi è sempre corrisposta a livello locale una sconnessa anarchia decisionale; la mancanza di un piano permetteva ai diversi soggetti di non collocare le proprie iniziative entro un quadro più ampio di relazioni e interazioni: ed è fuori da qualsiasi valutazione d’insieme che il il Demanio Marittimo ha dato circa 50.000 concessioni a chi ne faceva richiesta. 
Le leggi dunque non hanno dato risultati apprezzabili: le riserve marine stentano a partire e la gestione integrata è rimasta soltanto una nobile intenzione: certo l’iniziativa dei parchi non ha potuto ignorare una valutazione negativa su quanto era stato fatto, o non fatto per la generalità delle coste non protette. Ma, traendo lo spunto da quel primo deliberato della “legge del mare”, la Federazione dei Parchi ha da qualche tempo ripreso e fatto propria la questione della gestione integrata delle coste, con riferimento alle coste protette, che loro competono. Ci sono in Italia 24 parchi costieri, di cui nove sull’Adriatico. Il Parco del Conero ha dato il contributo più consistente alla definizione del programma. Lo stesso convegno di Portonovo 1999, di cui abbiamo detto, aveva avuto un precedente due anni prima, quando, nell’ambito della manifestazione “Parcoproduce” era stato proposto ad Ancona “Un progetto per le coste italiane protette in una logica di sistema”. 
“Meglio nei parchi che da nessuna parte”, sembrava ammettere brontolando lo stesso presidente del Parco del Conero, Mariano Guzzini: pur assumendosi il ruolo di pioniere della gestione integrata mare-terra, parlando nel febbraio scorso a Genova in un convegno propedeutico al Piano della Costa della Liguria non poteva fare a meno di commentare: "quasi che le problematiche dello sviluppo sostenibile si debbano sperimentare nei parchi, prima di essere adottate nella generalità del territorio". Un registro mosso da qualche libertà critica non è mai sbagliato, specialmente in questo campo. Il programma si chiama CIP, Coste Italiane Protette, e colloca in ambito europeo la sua operatività, intesa nell’ottica del sistema territoriale integrato, come ha spiegato l’architetto Franco Perilli in ripetuti interventi. Non mancano le collaborazioni e i centri di ricerca dai quali poter attingere informazioni ed elaborazioni: prima di tutti il Centro Studi “Valerio Giacomini”, per la cui costituzione la Federazione dei Parchi si è impegnata.
Nell'agosto dell'anno scorso finalmente il Ministero dell'Ambiente manifestò l'intenzione di avviare, nell'ambito di un accordo con l'ENEA, l'aggiornamento e l'integrazione di quel "Piano generale per la difesa del mare e delle coste marine dall'inquinamento e di tutela dell'ambiente marino" che era già disposto nell'art. 1 della Legge 979 del 1982. Questo impegno viene adesso fornito di tutte le premesse fondative, in primo luogo del riconoscimento del ruolo che il nostro paese viene ad assumere nel perseguimento degli obiettivi stabiliti a livello mondiale, come lo sviluppo sostenibile e la tutela della biodiversità. Il Piano Generale interesserà tutto il territorio nazionale e conterrà le linee guida per la pianificazione di competenza regionale come richiesto dalla legge Bassanini. 
E per cominciare bene, gli accordi tra Ministero dell'Ambiente ed ENEA promettono che non evaderanno da "un'attenta proiezione della tendenza climatica per i prossimi quindici anni almeno", e che si uniformeranno alle indicazioni e agli orientamenti dell'Unione Europea, al contenuto delle convenzioni adottate dai paesi mediterranei e a tutte le convenzioni internazionali. Al centro del nuovo testo, che verrà elaborato in stretto collegamento con le Regioni e approvato dalla Conferenza Stato-Regioni e sarà completo se tutto va bene nel 2002, nuovo governo volendo, troverà posto la gestione integrata necessaria a perseguire la misura di uno sviluppo sostenibile. Integrazione si intende a vari livelli e in diverse articolazioni: integrazione fra gli obiettivi; integrazione fra gli usi; integrazione fra gli ambiti spaziali; integrazione temporale; integrazione fra i centri decisionali; integrazione fra le componenti sociali - aspetto questo particolarmente caro all'Agenda 21. Il nuovo Piano in pratica si armonizzerà con i piani territoriali attraverso programmi di raccordo coi vari aspetti della pianificazione, fra i quali sono i piani regolatori (es. PPAR); i piani settoriali (es. dei porti, delle comunicazioni, della pesca); i piani speciali (acquedotti, parchi, riserve, aree protette); i piani di pronto intervento (es. i piani contro gli incendi boschivi). Il nuovo Piano Generale del Mare e delle Coste si proporrà le migliori intenzioni nel promuovere la qualità dell'ambiente marino costiero, nella salvaguardia degli usi plurimi del territorio costiero mediante l'armonizzazione delle attività antropiche e la limitazione del loro impatto. Considererà prioritari il coordinamento con le iniziative internazionali; l'acquisizione e l'elaborazione di dati; la più capillare conoscenza di ogni scarico in mare. Definirà infine le linee-guida che orienteranno chi redige i piani locali, linee-guida che riguarderanno tra le altre cose anche il regime e la difesa dei litorali.
Se tutti questi futuri porteranno a qualcosa, possiamo sperare che finalmente si chiuda una fase storica in cui le "gabbie legali" avevano trasformato la costa in una frontiera invalicabile tra due amministrazioni e, per inaccettabile conseguenza, tra due tutele che si ignorano. Parallelamente, possiamo sperare che chi è preposto alle decisioni locali la smetta di appellarsi alla separazione tra i vari settori dell'amministrazione per giustificare scelte che ormai nessuno o quasi si sente di accettare. Perché, come abbiamo detto, l'ingegneria dello scoglio e del cemento è sempre convissuta benissimo con quella separazione. Esiste però un punto di riferimento già deliberato e in fase di attuazione, che rappresenta un'anticipazione del Piano Generale che deve venire; è il Piano della Costa della Regione Liguria.

La regione Liguria ha approvato un suo Piano delle coste che può fornire un modello per le altre regioni e un’anticipazione del Piano Generale delle Coste.

La legge n. 13 del 1999 della Regione Liguria porta come titolo: "Disciplina delle funzioni in materia di difesa della costa, ripascimento degli arenili, protezione e osservazione dell'ambiente marino e costiero, demanio marittimo e porti". Il testo della legge comincia col riconoscere, per effetto della Bassanini, alla stessa Regione "le funzioni di programmazione generale dello sviluppo economico, portuale e turistico e di pianificazione territoriale degli assetti costieri secondo i principi dello sviluppo sostenibile" (art.2, comma 1); precisa poi che "la Regione esercita tale funzione attraverso il Piano Territoriale di Coordinamento della Costa e gli altri atti di programmazione regionale secondo il metodo della concertazione" (art. 2, comma 2); in modo specifico poi riconosce alla Regione "la definizione di criteri e direttive per la realizzazione degli interventi (art.3, comma 1, lettere a, b), con specifica menzione e preferenza per il ripascimento artificiale degli arenili. Questo piano ligure è particolarmente interessante perché è stato redatto dallo stesso soggetto, l'ENEA, che è anche l’ente incaricato di redigere il Piano Generale, e perché ne anticipa alcuni contenuti. 
Nelle Marche ancora non abbiamo un Piano della Costa, ma gli uffici della Regione ci stanno lavorando e l’Università di Ancona è chiamata a collaborare. In realtà la nostra regione non comincerebbe da zero: fin dal 1992 poteva contare sul “Rapporto Aquater”, uno studio di notevole valore che, tra gli altri meriti, aveva quello di indicare già allora tra i fattori di squilibrio costiero, il ridotto apporto solido dei fiumi. Nel redigerlo, tra l'altro, Aquater si poteva avvalere a sua volta di un precedente rapporto del 1975, nel quale era stato valutato il deficit di apporto solido al mare dovuto all'attività dei cavatori. Nonostante questo, gli anni seguenti segnarono il trionfo delle scogliere, a causa della rincorsa al montare dell'emergenza ma anche per deliberata convinzione dei responsabili a ogni livello dell'amministrazione pubblica; in realtà non si fece altro che frapporre ingombri rigidi di contenimento dell'azione del mare senza mai arrivare a definire un piano di lavoro integrato tra costa e territorio, cosa che, malgrado le difficoltà di raccordo, abbiamo visto col piccolo episodio di Marina di Montemarciano come fosse possibile.
In ogni modo gli studi non sono andati persi e nuovi rilevamenti sono stati disposti in modo da formare parte del bagaglio necessario per definire un piano della costa delle Marche. Esistono già accordi di programma con le regioni vicine. L'Emilia Romagna è più avanti di noi, ha già il suo piano delle coste e ha delegato i comuni ad applicarlo. Sostanzialmente il piano dice: "salpate tutte le scogliere e cominciate a fare i ripascimenti". L'Emilia Romagna ha un vantaggio in questo, perché a 40 chilometri al largo di Ravenna, a 40 metri di profondità ci sono spiagge relitte dalle quali si possono trarre, secondo lo studio Preti del 1985, diecimila metricubi di sabbia all'anno avendo cura di non causare danni ecologici. L'Abruzzo più o meno si trova allo stesso punto delle Marche; non disponendo però di sabbie, ritiene di coinvolgere anche la nostra regione per cercarle nel nord dell'Adriatico. 
Il ripascimento sembra essere per tutti il nuovo modo di opporsi all'erosione. Al convegno di Portonovo erano presenti alcuni responsabili di interventi di questo tipo che hanno dato buoni risultati in termini di stabilità e durata: si è parlato di quelli di Marina di Pisa e di Cala Gonone in Sardegna; si è accennato alla ricostruzione della spiaggia di Pellestrina. Anche nelle Marche ci sono conoscenze, progetti e già qualche esperienza, per Portonovo, per i Sassi Neri di Sirolo, per il San Bartolo; esiste l’esperienza dei ripascimenti stagionali di alcune aree balneari che vanno annualmente in erosione. In generale, però, prevale la prudenza. E' evidente che, connessa con la scelta del ripascimento con sabbie e ghiaie, c'è in primo luogo la preoccupazione di non creare danni. Si pensa che interventi leggeri possano tutt'al più essere inefficaci, ma dannosi mai. Si pensa che la spesa dei ripascimenti vada misurata coi benefici del turismo e se ne giustifica l’attuazioine ricorrendo al paragone con le località sciistiche: gli addetti che bombardano le piste con la neve artificiale sanno benissimo che la neve si scioglierà d'estate, ma lo trovano ugualmente conveniente. Queste però, scriveva Edoardo Mentrasti nella relazione inviata a quel convegno, "sono soluzioni-tampone a breve, perché sul lungo periodo siamo impegnati a far sì che il trasporto solido dei fiumi riprenda il suo naturale flusso". Opportuna osservazione, anche se un tantino inzuppata nell'ottimismo della volontà, com’è giusto che sia in un amministratore: ma sono così varie e numerose le concause riconosciute dell'erosione delle coste e gli interessi che vi gravitano sopra che non sarà facile fare piani che compongano la gran parte di essi per ottenerne l'efficacia di azione che adesso servirebbe. Aspettiamo che il Piano Generale delle Coste ci dica cosa si fa di fronte alla causante estrema, connessa al riscaldamento del pianeta, prima di zaffare ottimismo. Aspettiamo anche di vedere come è fatto il piano regionale. Vediamo poi se il suo modo di operare rientrerà almeno in una delle oltre duecento diverse versioni del concetto di sostenibilità che sono state formulate da quando se ne parla. Perché avere un piano, averlo anche fatto bene potrebbe significare poco o niente. Del Piano della Costa si potrebbe dire lo stesso che Vezio De Lucia disse illustrando il paradosso dei piani regolatori urbani: citando Modena, una delle città storicamente meglio amministrate d’Italia, l’urbanista Diessino faceva osservare che “proprio perché ben amministrata”, la città era sestuplicata rispetto al nucleo iniziale, segnando così un record nell’incremento urbano. Questo è avvenuto semplicemente perché i piani regolatori sono stati sempre e solo “piani di sviluppo”. 


La programmazione e la tutela dei litorali devono essere coordinate e gestite da un’autorità che tenga conto delle caratteristiche dell’unità fisiografica e sappia collegarla ai bacini fluviali e a ogni fenomeno afferente. Non basta dimensionare la programmazione e adottare tecniche appropriate: occorre anche ridefinire gli obiettivi dello sviluppo costiero

Proviamo soltanto a immaginare allora per larghe approssimazioni come la cosa potrebbe funzionare. Innanzitutto il Piano della Costa dovrà essere profondamente convinto delle motivazioni che lo reggono: la programmazione e la tutela dei litorali non possono più essere lasciate in balia delle autonomie locali, né di accordi bilaterali, né all'esclusivo beneficio o all’esclusiva competenza di alcune categorie professionali. Tenere a mente costantemente che lo stato di salute dei litorali dipende dal loro rapporto con i bacini idrografici: dovrà quindi saper prevedere le interazioni con la programmazione territoriale e anche con le opere pubbliche che vi vengono attuate, conoscendone in anticipo i possibili effetti sui litorali. 
La previsione delle opere da collocare “a mare” sarà tra tutte quella più facile da determinare: bisognerà esaminare, per ogni operazione che facciamo a mare, siano esse moli, terrapieni o porti turistici, una valutazione di impatto sull'ambiente marino calibrata sotto ogni punto di vista, della perturbazione delle onde e delle correnti come della vita biologica, del trasporto solido come della vulnerabilità che ne deriverebbe sulla costa compresa entro l’unità fisiografica in cui insistono. Dovessimo, in seguito alla valutazione, rinunciare a un’opera che ancora non c’è, sarebbe comunque più facile che trovarci a modificare quello che già esiste ed è consolidato nell’uso (ma riguardo alle valutazioni di impatto ambientale, redatte dagli stessi progettisti, non c’è davvero da essere ottimisti: finora abbiamo conosciuto solo “giustificazioni di impatto ambientale”!). Pensiamo soprattutto all’uso balneare degli arenili: il Piano delle Coste potrebbe limitarsi a recepire tutti i piani degli arenili così come sono usciti dall'ultima delle mille varianti che i comuni hanno ormai approvato; potrebbe mettersi a difendere ogni singola trincea del nostro avanzamento verso il mare; il metodo del ripascimento artificiale, qualora riuscissimo a non cedere a deroghe in favore delle vecchie scogliere, permetterebbe forse di farlo più correttamente, senza provocare guasti aggiuntivi; questo significherebbe probabilmente che le amministrazioni pubbliche accettano di accollarsi le maggiori spese dovute a un incessante movimento di materiali, compensate non da un saldo ambientale un tantino più positivo, ma solo dai proventi della stagione turistica. 
Il Piano potrebbe invece agire diversamente e indicare parametri di sostenibilità ai quali ogni spiaggia, entro un tempo determinato, dovrà adeguarsi; questo significherebbe che facciamo sul serio e che mettiamo in discussione anche qualche aspetto dello sviluppo per riconvertirlo, e che non fronteggiamo il mare solo per difenderci da lui in ogni tipo di invadenza, anche la più sbagliata. Questo dovrebbe avvenire non perché il Piano ha intrinseche obiezioni verso qualche tipo di sviluppo, ma perché non sarebbe concepibile né ammissibile che i poteri pubblici debbano pianificare e poi sopperire a ogni debito che l’attività imprenditoriale abbia contratto con l’ambiente naturale. Tanto più che un rapporto più favorevole con l’ambiente naturale potrebbe aiutare entrambi a disporre il territorio in modo da migliorare il loro servizio riducendone i costi complessivi e migliorando l’offerta. Capita già, per fare un esempio, a tutti gli amministratori di città di mare di dover rispondere a richieste di scogliere o di ripascimenti annuali da parte di concessionari che si vedono asportata la sabbia dall'erosione: ancora si tarda, in questi casi, a prendere in considerazione anche l'opportunità di incentivare il loro spostamento in luoghi limitrofi dove non si sia costretti a spendere ogni anno cifre enormi. Un piano della costa d’altronde dovrà pur prevedere dove ci sarà erosione ed evitare di precostituire in quei luoghi diritti o anche solo aspettative di compensazione. 
Un piano delle coste dovrà saper prevedere, attraverso la progettazione partecipata delle nostre coste, anche le occasioni che ci sono offerte di arretrare riqualificandoci: proprio quello che Poseidon ha cercato di dimostrare possibile. Bisognerà allora condurre una ricognizione attenta di ogni luogo “cedibile” entro ciascuna unità fisiografica che verrà identificata dal piano: ne conosciamo già almeno due: tra Civitanova e Porto San Giorgio e alla Sentina sotto San Benedetto. In questi e altri luoghi che verranno individuati bisognerà fare una valutazione comparativa tra costi e benefici ed agire con estrema coerenza: dove il turismo non ha ancora portato a una capitalizzazione molto spinta dei siti, tornare indietro non solo sembra possibile, ma potrebbe avvenire anche senza grandi rinunce e probabilmente con vantaggio. Una previsione conseguente dovrà arrivare a mettere in discussione anche l’arretramento della ferrovia, aggiungendo alla voce “costi complessivi non sostenibili” eventualmente anche quelli dovuti alla protezione della linea ferroviaria. 
Questa linea di condotta sembra difficile da intraprendere e ancora più difficile da mandare in atto; è però ormai indispensabile, dato lo stato avanzato del degrado e dell’insostenibilità evidente dell’attuale sviluppo costiero. Essa deve porsi come obiettivo il compito di ristabilire progressivamente la flessibilità perduta. Se non agissimo così, finiremmo per aggravare la situazione oltre ogni dire; l’emergenza già cronica monterebbe ancora e a quel punto non avremmo più da difendere solo le spiagge, ma molto altro, e le spese toccherebbero livelli inverosimili. Coloro che hanno a cuore il buon governo dell’ambiente dovrebbero perciò far propria la linea di condotta della flessibilità facendo in modo che tutti gli amministratori la comprendano e la adottino a loro volta perché infine tutte le persone possano beneficiarne. Se ci riusciremo vorrà dire che una nuova cultura dell'uso del litorale ci compenserà, anche economicamente, di quello che avremo perso.

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Associazione per la Difesa della Natura e del Paesaggio, Ambiente, Legislazione, Autonomie, Senigallia 1995

Brown L. e altri, State of the World, ISEDI 1991

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Garaguso G.C., Marchisio S. (a cura di), Rio 1992: Vertice per la terra, Franco Angeli, 1992

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